Verde marcio: l’inganno del Greenwashing

Dobbiamo ammettere che ci stiamo tutti un po’ intrippando con questa storia della moda ecosostenibile. Ce se ne riempie la bocca ovunque e ad ogni livello della filiera: dal comunicato stampa del CEO di rinomati fashion brand, alla chiacchera con la commessa che gentilmente ci passa il formaggio che le abbiamo domandato al banco gastronomia. Sia gli addetti ai lavori che i consumatori hanno giustamente la loro da dire a riguardo.

Dato che però il nostro spirito guida è il salmone, che notoriamente nuota controcorrente, vorremmo provare a non cavalcare l’onda ed immergerci per vedere cosa c’è sotto questo movimento. In concreto vogliamo analizzare questo fenomeno da un punto di vista differente, poichè abbiamo motivo di credere che nelle ormai quotidiane pubblicità di collezioni ecosostenibili si celi una strategia marketing più che una vera e propria presa di posizione.

Il 13 giugno abbiamo assistito ad un interessantissimo Web Binar intitolato “La moda pulita”. I relatori sono stati diversi, da Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti ad Antonio Franceschini, responsabile nazionale del CNA Federmoda, passando per i rappresentanti di Manitese, del Filcams e del Commercio equo solidale. Si è partiti da come l’Italia abbia una doppia responsabilità sociale sulle produzioni moda dato che siamo un paese ove si produce ma anche dove si consuma molto, e su come il Covid-19 abbia fatto da catalizzatore per l’avvento di un cambiamento urlato ma mai ascoltato da molto tempo. Sappiamo già cosa vi era prima e cosa ha perorato l’avvento del virus: lavoratori non pagati, catene di fast fashion che giustificano in nome del virus dei licenziamenti palesemente troppo mirati, cancellazioni di ordini, etc.  Questa piccola entità biologica però non ha aggravato la situazione, ma solo svelato una realtà vigente. Milioni di lavoratori hanno raggiunto trattamenti con livelli di ingiustizia tali da non poterci più chiudere gli occhi con le mani senza sembrare quei bimbi che usano questa mossa per diventare invisibili: buffi davvero.

Si è parlato quindi di ciò che concretamente si sta mettendo in atto per provare ad aiutare queste persone: la Strategia Ombra. Nonostante il nome possa ricordare uno di quei film in di spionaggio sulla Casa Bianca, la Stretegia Ombra vuole essere una sorta di revisione dei settori del Tessile, dell’Abbigliamento, della Pelle e delle Calzature (dai cui la sigla in inglese TGLF), revisione che diviene il compendio delle idee nate da un gruppo di 65 diverse organizzazioni della società civile (attivisti per il commercio equo e solidale, i diritti umani e dei lavoratori, la protezione dell’ambiente e la trasparenza). Questa strategia non ufficiale (o “ombra” per l’appunto) propone “ una serie di azioni legislative e non che l’UE può intraprendere per contribuire a rendere le catene di valore TGLF più eque e sostenibili. Il gruppo di organizzazioni […] invita la Commissione europea, i deputati al Parlamento europeo e i governi dell’UE a sostenere una strategia ambiziosa che dia il via a una riprogettazione globale del modello di business dell’industria tessile per il mondo post-coronavirus”.

E’ giusto ricordare che sino ad ora per monitorare la loro catena di produzione i brand si sono affidati ad audit inviati dall’azienda stessa o da enti di certificazione che garantiscono il rispetto di prescrizioni in ambito etico ed ambientale. Il problema sta proprio nel termine “prescrizione” poiché quello che ad oggi i marchi seguono, non è una legge vera e propria con tanto di sanzioni civili o penali, ma un cortese e delicato “suggerimento” su come gestire la propria filiera produttiva. Il risultato di questo gentile approccio ha portato ad episodi più o meno tragici e più o meno mediatici; esemplare ed esemplificativo fu il crollo del Rana Plaza a Dacca in Bangladesh nel 2013, ove 1129 dipendenti persero la vita. In questo preciso caso, i noti brand coinvolti nell’accaduto hanno dichiarato di non sapere nulla sulle condizioni in cui lavorava il personale dell’azienda, nonostante essi fossero i mandatari delle lavorazioni che ogni giorno le loro mani eseguivano. I vari marchi, infatti, commissionano la manifattura ad un soggetto che poi a sua volta subappalta la stessa a terzi. Questo fa si che vi sia una perdita totale del controllo sulla gestione della filiera.

Ad oggi, per stare al passo con la popolare richiesta di sostenibilità (la quale richiede interventi davvero complessi per essere attuata come si deve) sono moltissimi i brand che fanno Greenwashing. Dispetto all’ideale positivo (quasi alla Greta Thunberg)  a cui ci rimanda questa parola, il greenwashing è in realtà una “strategia di comunicazione di certe imprese […] finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti”. In altre parole, si dice una porzione della verità omettendo le parti scomode.

Per capire davvero cosa si cela dietro i cartellini in carta reciclata (davvero molto evocativi!) che troviamo aggrappati ai più svariati articoli, possiamo andare sul sito di Fashion Revolution. Quest’ultimo è un movimento globale senza fini di lucro che si da l’obbiettivo di pretendere dai marchi di moda trasparenza totale circa le loro produzioni. Sulla loro pagina web possiamo visualizzare e scaricare il Transparency Index, un’indagine fatta su 200 marchi di moda che sfocia in una classifica al cui apice troviamo i brand più sostenibili. I criteri che vengono seguiti per assegnare il punteggio alle imprese si basa su cinque punti: la policy, la governance, la tracciabilità, le politiche d’intervento sulle condizioni dei lavoratori delle subforniture, le politiche aggiuntive degne di nota. Leggendo i risultati, sono due i dati che colgono la nostra attenzione: il 48% delle aziende ha una policy in favore della sostenibilità mentre solo il 12% condivide informazioni riguardanti la tracciabilità. Ma cosa significano questi numeri? Essi ci dicono che su 200 aziende quasi la metà appoggia a pieno titolo la sostenibilità, ma solo 24 palesano ai propri consumatori dove effettivamente viene confezionata la merce, gettando conseguentemente un’ombra di mistero su chi invece non ne fa menzione.

Possiamo concludere dicendo che il cammino verso la sostenibilità è davvero lungo e difficoltoso ed una conversione reale a questa polita implica molti cambiamenti per una azienda (basti pensare che sulla sostenibilità incidono anche le emissioni per i trasporti della merce).  Non possiamo pretendere che tutto muti in pochi mesi di chiusura causa Covid-19, mettiamo quindi in campo un atteggiamento critico nei confronti di quello che viene pubblicizzato con grandi lettere dalle tonalità verdi.

Fonti: Podcast Solo moda sostenibile, Webbinar La moda pulita, sito Fashion Revolution, sito Campagna abiti puliti.

Foto da @Google Image

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